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D. Pennac, Diario di scuola

Questo libro è un pugno a tutti quegli insegnanti, che sono stati in cattedra una vita, senza mai accorgersi delle emozioni delicate, dei sogni fragili, dei talenti in bocciolo che sono passati loro davanti agli occhi e che spesso, per distrazione o superficialità (non diverse negli effetti dalla cattiveria e dall’arroganza) hanno calpestato senza rendersene conto.

Sono onorata di essere un’insegnante, sono fiera di fare un lavoro che mi mette ogni giorno davanti agli occhi limpidi della parte migliore del mondo, i bambini, di fronte ai quali abbiamo il dovere di fare di tutto per renderci degni di quello sguardo pulito, trasparente. Spero di essere all’altezza di un compito così alto, giorno dopo giorno.

“Insomma, andavo male a scuola. Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo (Evviva!). Refrattario dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione dei luoghi geografici, inadatto all’apprendimento delle lingue straniere, ritenuto pigro (lezioni non studiate, compiti non fatti), portavo a casa risultati pessimi che non erano riscattati né dalla musica né dallo sport né peraltro da alcuna attività parascolastica.

– Capisci? Capisci o no quello che ti spiego?

Non capivo. Questa inattitudine a capire aveva radici così lontane che la famiglia aveva immaginato una leggenda per datarne le origini: il mio apprendimento dell’alfabeto. Ho sempre sentito dire che mi ci era voluto un anno intero per imparare la lettera a. La lettera a, in un anno. Il deserto della mia ignoranza cominciava al di là dell’invalicabile b.

– Niente panico, tra ventisei anni padroneggerà perfettamente l’alfabeto.

Così ironizzava mio padre per esorcizzare i suoi stessi timori. (…)

Io ero anche e soprattutto un ragazzino disposto a qualunque compromesso per lo sguardo benevolo di un adulto. Elemosinare di soppiatto l’approvazione degli insegnanti e piegarsi a ogni conformismo: sì signor professore, sì, ha ragione… è vero, signor professore, che non sono così stupido, così cattivo, così deludente, così… Oh! Che umiliazione quando l’altro con una frase secca mi rimandava alla mia indegnità! Oh! Che abietto sentimento di gioia quando invece buttava lì due parole vagamente gentili che io subito custodivo come un tesoro di umanità… E come mi precipitavo, la sera stessa, per parlarne ai miei genitori: -Ho avuto una bella conversazione con il professore Taldeitali…”

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