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Orhan Pamuk, La stranezza che ho nella testa

Una storia profondamente legata alla città di Istanbul, come tutte le storie di Pamuk, eppure, come tutte le storie di Pamuk, capace di essere storia di tutti, di farti sentire parte delle emozioni di una vita lontana, quasi fosse la tua.  Mevlut è un venditore di boza, una bevanda leggermente alcolica tipica della Turchia. Al matrimonio di un parente, incontra lo sguardo di una ragazza e se ne innamora al punto da scriverle lettere per tre anni e da decidersi a rapirla, per poterla sposare. Il cugino gli aveva detto che il nome della ragazza era Rayiha e così è a questo nome che aveva rivolto le sue dichiarazioni d’amore per scritto. Tuttavia, la ragazza che si trova accanto, al momento della fuga, non è quella a cui ha scritto le sue lettere, ma la sorella maggiore, Rayiha appunto. Fatto sta che Rayiha e Mevlut si sposano e si amano perdutamente, finché altri eventi drammatici intervengono a spezzare la loro felicità. Nessuna prova e nessun cambiamento, però, riusciranno a piegare l’onestà e l’ottimismo con cui Mevlut continua a vendere boza nelle strade della sua Istanbul.

Dopo aver percorso tutto il libro dall’inizio alla fine, più di cinquecento pagine che non pesano affatto, ti porti dietro una sorta di malinconia, come se avessi attraversato un’intera vita, che potrebbe essere la tua, con le sue gioie e i suoi dolori, con le vicende personali e familiari e con tutta quella stranezza che ognuno si porta nella testa e a cui non rinuncerebbe mai, se non a costo di rinunciare a se stesso.

 

 

“All’occhio militare di Mevlut la casa sembrò disorganizzata e misera. Eppure respirò quell’odore unico, che non aveva trovato in nessun altro posto: era l’odore di suo padre, del suo stesso corpo, dei loro aliti, della polvere, del fuoco, delle minestre che da vent’anni venivano cucinate lì, della biancheria sporca, delle vecchie cose, era l’odore della loro vita”.

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