Commento di Paolo Ferruzzi

Sessantacinque anni fa Sal Paradise decide di andare e non fermarsi. Di non fermarsi finché non sarà arrivato e anche se non saprà dove andare dovrà andare comunque. Con questo anelito di irrequietezza  esistenziale Jack Kerouac mette Sal “on the road” con l’ interesse per una vita intensa fatta di innumerevoli esperienze  e desideroso di  conoscere l’immensità del continente  nordamericano. Così come Kerouac allora si identifica in Paradise così è oggi Altamura che si traspone in Celeste e con lei e attraverso lei si affida in un lungo viaggio “on the World” perché “…il viaggio è un dovere e si è chiamati a viaggiare in qualsiasi modo ci sia concesso, anche solo con gli occhi, per guardare lontano, col cuore, per sentire oltre il proprio piccolo mondo, o con le orecchie, per ascoltare le voci che non hanno parole, le musiche diverse, i suoni dimenticati” e viaggiare per vivere altre vite e conoscere altri posti del pianeta. E così Celeste registra “On the world” quello che vede e registra il paesaggio e la natura e  registra quello che dice la gente che lei incontra sulle “strade” dei cinque continenti come  nelle vie di Barcellona o di Londra  o di New York o tra le capanne di paglia del continente africano  o nell’isola di Tioman affacciata su quell’Oceano che oggi spaventa di meno. Ed è un viaggio affollato da una miriade di persone e personaggi che sembrano rincorrersi come se questo fosse naturale cosa e come naturale cosa e innocente  innamorarsi e fare l’amore tanto struggente e poetico tra Celeste e George come “l’acqua del mare al largo”. Ed è un viaggio che fa vedere colore alcuno o differenza tra bianco e nero. Ed è un viaggiare dove si annullano le differenze e le difficoltà e dove conoscere una lingua non e indispensabile, come ci ricorda Rokia, perché “… se non sai tradurre quello che una persona dice, puoi sempre sentirne il sapore, dolce o amaro, aspro o piccante. Tutto sta ad essere pronti ad assaggiare, a portarsi le parole fino alla bocca, per provarne il gusto e fino al petto, per sentirne risuonare l’emozione insieme al battito del cuore, allo stesso ritmo dei djembe e all’unisono con la sinfonia d’onde dell’oceano…” Ma è anche un viaggio dove  ricorrente è la sensazione malcelata di fastidio che ti attanaglia durante la notte per essere stemperata poi con la rassicurazione del giorno questo come a emblematico e significante raffronto tra la notte e il giorno, tra il chiaro e lo scuro, tra il nero e il bianco. Ho letto  “Viaggio in bianco e nero” di Alessandra Altamura e leggendo ho viaggiato in treno e in aereo e in lungo e in largo e trasportato dalla gioia di vivere di Celeste e mi è piaciuto stare in sua compagnia e in quella di George, di Rokia, di Bamba, di Kassoum e sospeso tra le corde mute del violino di Oksana. E ripongo le pagine di questo scritto con il ricordo di una immagine bella che lascia spazio alla fantasia di andare oltre : “… Si guardano, un istante brevissimo, prima che le porte del treno tornino a serrarsi l’una all’altra di nuovo. Ha gli occhi verdemare e il viso disseminato di puntini, eppure terso, sa di freschezza. Gli dice “Thank you!” e poi aggiunge “Ops, cioe…Spasibo!” e lui risponde: “Prego!”, appena in tempo. Ridono con lo stesso fragore e si osservano ridere finche possibile, senza potersi sentire, attraverso i vetri della metro pressati di sagome, appannati di fiati e affanni. Prima che il sipario si chiuda davanti ai loro volti, riesce a sentire la voce di una ragazza, che la chiama da dentro: “Ce la fai, Celeste?”. Celeste… come la linea della sua pace al decollo degli aerei…” .

Gennaio 2016

Paolo Ferruzzi

 

Comments:0

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *